Il Vomero Capitale di Napoli

La copertina di un libro con uno sfondo blu.

L’eredità culturale e il risveglio identitario del Vomero

di Diego Davide

Ebbene si, chi scrive è la testimonianza vivente del fatto che non c’è vomerese peggiore che il vomerese acquisito. Piazza Leonardo e i giardinetti di via Ruoppolo sono le mie colonne d’Ercole oltre le quali non c’è forma di vita che valga la pena essere vissuta.

Con fastidio mi spingo fino alla zona ospedaliera, quando a malincuore devo sottopormi a controlli medici. Con medesimo rammarico mi inoltro, per motivi lavorativi, nell’area flegrea ma non è questo ciò di cui voglio qui parlarvi.

Alle pagine di questo giornale affido il ricordo di quando ormai un decennio fa mi sono imbattuto nella preziosa opera di tale Gastone Bellet, autore del libro:

il Vomero Capitale di Napoli. All’istante ne ho anelato il possesso. Del resto non molto tempo prima avevo annuito in maniera vigorosa ad un amico che, seduto ad uno dei tavolini di Fonoteca, da noi già ribattezzato il Gambrinus Vomerese, dava per incontrovertibile una sua considerazione: l’unico luogo della città in cui valesse la pena vivere era il Vomero. Radicare altrove la propria famiglia era da considerarsi un atto scellerato. Sposavo in pieno la tesi, avendo cancellato dalla memoria il fatto di essere cresciuto altrove. La damnatio memoriae della mia provenienza era cominciata allorquando avevo deciso di affidarmi a un logopedista con studio su via Scarlatti, che stava cercando di cancellare ogni mia inflessione capodimontese, arricchendo il mio eloquio di una deliziosa “r” arrotata che suonava come una “v”.

Non vi dico la soddisfazione la prima volta che riuscii a pronunciare senza alcun inciampo la frase: abito al Vomevo. La dotta chiacchierata era poi trascesa quando qualcuno aveva affermato che anche l’Arenella era da considerarsi Vomero, sollevando l’iraconda reazione di chi, come me, non ammettendo deroga alcuna, sventolava l’atto di residenza come bandiera. Si trattava di fare da argine a quello che aveva tutta l’aria di essere un tentativo di sostituzione etnica. Già, notavamo, la nuova linea metropolitana con l’arrivo di visitatori dai rioni periferici aveva intaccato in maniera incontrovertibile la nostra biodiversità.

La metro non era mai stata per i vomeresi iure sanguinis un servizio essenziale, limitandosi gli stessi a incursioni a Chiaia o al più verso il Corso Vittorio Emanuele come estremo atto di ardimento e, per quello, bastavano le funicolari. Giammai, benché vicino alla Sanità (come cantava Gigi d’Alessio) avremmo consentito che le nostre donne fossero impalmate da codici di avviamento postale diversi da: 80128. Quella che era stata spacciata come miglioria infrastrutturale altro non era che un cavallo di troia finalizzato a far entrare il nemico dentro le nostre mura. Avvilito per la mesta deriva del quartiere mi gettai nella lettura del libro che avevo subito considerato il mio testo sacro. Gastone Bellett ci porta indietro

negli anni Cinquanta del Novecento quando il quartiere era rifugio di artisti e uomini di cultura e ospitava le ville di famiglie di nobile lignaggio. Era il tempo in cui nei locali dell’attuale Zara insisteva il Cinema Iris. Poco più avanti c’era il palazzo del Marchese Caracciolo di Sant’Erasmo personaggio a cui deve essersi ispirato il maestro

Che domani sia l’alba di un nuovo giorno, il primo dell’era del nuovo Vomero, quello in cui vivremo da cittadiniliberidiunoStatocheci somiglia,

Monicelli per la scrittura di alcune delle sue pellicole di maggior successo. Il nobiluomo, noto per la sua verve e le sue trovate, per fare contento un sacerdote che in un ascesso di follia pretendeva di essere il vero cardinale di Napoli organizzò un pranzo in onore di quel finto principe della Chiesa. Il prete si presentò in abito rosso cardinalizio e venne ricevuto dagli amici del Caracciolo in ginocchio, con in mano enormi ceri devozionali.

Non solo al giuoco e allo scherzo si votò l’eminente marchese, di cui segnaliamo alcune iniziative di alto spessore civico e morale come la stesura di un piano, delineato nei minimi dettagli, per il riconoscimento di un ameno “Stato libero del Vomero”. Insieme ai suoi sodali ne individuò i confini e assegnò tutte le cariche pubbliche. Perché mai, mi chiedo, difronte allo svilimento di quella che non esito a riconoscere come la mia “patria” non dovremmo oggi impegnarci nel rilancio di tale iniziativa? Non dico di arrivare a coniare una moneta, potendo per praticità continuare a usare l’euro ma è ormai necessaria una presa di coscienza.

Che domani sia l’alba di un nuovo giorno, il primo dell’era del nuovo Vomero, quello in cui vivremo da cittadini liberi di uno Stato che ci somiglia, lontani finalmente dalle pulcinellate di un centro storico che si è venduto anima e corpo alle necessità del turismo di massa. Che siano queste parole il manifesto di un nuovo Illuminismo Vomerese.

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